Come le più importanti esperienze della vita, il gusto procede nella conoscenza per punti di non ritorno. Più si approfondisce, più si va alla sua sorgente, più si acquisisce una sensibilità che ci fa accorgere immediatamente del “di meno” che ci viene proposto comparato con la verità sperimentata. Da tutto ciò nasce il nesso tra viaggio e gastronomia e si sente la necessità di mettersi in moto per conoscere e fare memoria. La poesia di Montale coglie la ragione motrice dello spostarsi al di là di ogni calcolo e dentro ogni programma, al di là di ogni attesa e al cuore di ogni aspettativa: l’imprevisto. L’imprevisto è l’unico elemento in grado di rendere la semplice esperienza un vissuto reale. Succede un po’ così anche quando ci si siede a tavola e ci si mette in attesa del piatto che abbiamo scelto. Pregustiamo la pietanza ma in fondo desideriamo che accada l’imprevisto, che ciò che conosciamo ci sorpassi, ci stupisca e che abbia dentro una prospettiva inimmaginata. Ci si aspetta che la gastronomia valga il turismo, che l’emozione cercata risarcisca i chilometri percorsi, che nel piatto ci sia un’informazione in più circa il territorio che stiamo visitando, che ciò che mangiamo e beviamo sia un racconto che diventi nostro, che si trasformi in un giudizio, che si conservi nell’unico vero possesso durevole di un’esperienza gastronomica: un racconto umano ovvero la ricchezza di una esplorazione. Nel cibo cerchiamo sempre un’informazione in più su noi stessi.
Il turismo enogastronomico ritrova in tutto ciò il suo carattere originale: girare il mondo per trovar se stessi. Il cibo è profondamente legato al territorio, il cibo ne è il concentrato, attraverso il cibo si riesce a possedere quel pezzo di mondo con la più importante delle nostre capacità sensoriali: il gusto. Attraverso vista, olfatto, tatto e udito conosciamo il reale, conosciamo l’oggetto della nostra attenzione ma questo oggetto rimane esterno a noi, alieno, straniero. Mangiare è la via per fare propria la realtà, per immedesimarsi. Ciò è vero sia da un punto di vista fisico sia da un punto di vista culturale. Si pensi alla civiltà cristiana che vive il più alto dei rapporti con il proprio Dio - l’eucarestia - attraverso un banchetto, un far proprio per appartenere totalmente. Il viaggio enogastronomico è un punto di non ritorno perche´ ci insegna qualcosa su noi stessi, ci rende la reale statura di quello che desideriamo raggiungere quando mangiamo: più trattiamo bene il momento del pasto più diamo importanza alla nostra strutturale ed ineludibile esigenza di assumere dall’esterno il sostentamento e ci riscopriamo creature. Il viaggio è la continua scoperta dell’essere creature e dell’essere compatibili e nutriti diversamente ma continuamente. Il punto di non ritorno è altresì legato alle persone che stanno dietro e dentro la produzione del cibo. Il cibo conduce alla sua fonte, il cibo costringe alle sue ragioni paesaggistiche, antropologiche e storiche. Questo rende il turismo enogastronomico un fenomeno di approfondimento e di lettura totale: quel cibo consumato nel suo luogo di generazione, nel suo habitat, esalta se stesso e introduce il turista alla sua cornice: l’aria, l’atmosfera che c’è tra una bottiglia di vino e il consumatore, il clima che si frappone tra un cibo e il visitatore fa la differenza.
Il turismo enogastronomico è una grande realtà e, per questo, è un’avventura formativa, piacevole e sorprendente, destinata a far tornare a casa il viaggiatore diverso, con una ipotesi e una prospettiva dal gusto assolutamente nuovo perche´ inedito e destinato a generare sensibilità e innovazione.