A livello internazionale il primo organismo ad occuparsi del tema della multifunzionalità in maniera organica è stato quello delle Nazioni Unite (ONU) attraverso l’AGENDA 21, successivamente l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e l’Unione Europea (UE) (Casini, 2009).
L’AGENDA 21 è il documento redatto nel 1992 dalla Conferenza UN su ambiente e sviluppo riguardante le azioni da intraprendere sia a livello locale che globale nel XXI secolo per raggiungere uno sviluppo sostenibile. Il capitolo riguardante lo sviluppo rurale e la multifunzionalità nel settore agricolo è il quattordicesimo, dal titolo “Promoting sustainable agricolture and rural development”. Il paragrafo 14.2 in particolare definisce come obiettivi primari la produzione di cibo in maniera sostenibile e l’aumento della sicurezza ambientale. AGENDA 21 propone dodici aree d’azione, tra cui la prima si intitola “Revisione della politica agricola, pianificazione e programmi integrati ispirati alla multifunzionalità in agricoltura, in particolare in riferimento alla sicurezza alimentare e allo sviluppo sostenibile”. In questa sezione del documento viene ribadita la necessità di arrivare ad una maggior sicurezza ambientale attraverso l’aumento della produzione agricola sostenibile.
L’OCSE definisce la multifunzionalità come l’insieme di benefici apportati dall’agricoltura al benessere sociale. L’OCSE ha dato quindi una definizione molto utile di multifunzionalità dal punto di vista metodologico, essendo sufficientemente ampia e flessibile per affrontare alcuni aspetti teorici economici importanti, in particolare quelli riguardanti le caratteristiche dei beni pubblici e delle esternalità relative ai prodotti secondari riferiti al settore agricolo (Henke, 2002). L’obiettivo dell’OCSE era fornire alle governance locali e nazionali soluzioni per gestire la produzione di beni e servizi non di mercato prodotti dall’agricoltura, ovvero le Non commodity outputs (NCO). Esse assumono carattere di bene pubblico, di conseguenza il mercato non è in grado di attribuire il corretto valore economico, stante l’impossibilità di definire idonei diritti di proprietà, date le caratteristiche intrinseche di non rivalità e non escludibilità. Gli NCO, inoltre, producono esternalità positive, anch’esse non compensate da meccanismi di mercato o, talvolta, solo parzialmente (OCSE, 2001). Dal punto di vista economico, la conseguenza di questo fenomeno si concretizza in una quantificazione erronea della funzione di domanda da parte dei consumatori e, allo stesso tempo, in un’offerta inadeguata. In questo contesto, gli agenti all’interno del sistema economico effettuano le loro scelte decisionali basandosi su condizioni di prezzo e costo fallaci, che inducono ad un utilizzo delle risorse non conforme al valore di queste ultime (Raffaelli, 2005).
In questo senso, l’OCSE tenta così da un lato di definire adeguati rapporti di produzione tra i cosiddetti Commodity outputs (CO) e i NCO. Infatti, esiste una stretta relazione tra questi due tipi di beni e servizi. In generale, in presenza di un’agricoltura di tipo estensivo il rapporto tra CO e NCO è di complementarietà, in quanto questo tipo di agricoltura permette la tutela della biodiversità, dell’equilibrio idrogeologico e del paesaggio; mentre in presenza di un’agricoltura intensiva il rapporto tra CO e NCO sarà in genere rivale. Questo perche´ l’agricoltura intensiva punta alla massimizzazione della produzione di CO, generando situazioni in cui l’offerta di NCO potrebbe essere insufficiente. Talvolta questo fenomeno potrebbe non accadere. Per esempio, in presenza di aree scarsamente popolate (come la montagna), l’incentivazione della produzione di CO (come il latte attraverso il pascolo del bestiame) potrebbe portare ad ottenere effetti positivi (come la produzione di formaggio, il mantenimento di tradizioni locali e la possibilità di effettuare attività ricreative con turisti). La criticità maggiore risiede nel calcolo dei NCO. Infatti, senza l’indicazione di un prezzo di mercato o in presenza di indicatori fisici difficilmente traducibili in unità economiche, risulta complicato per i policy maker e per gli agricoltori stessi prendere decisioni corrette. Di conseguenza, la capacità di elaborazione di questo tipo di informazioni risulta decisiva (Casini, 2009).
A differenza dell’OCSE, l’UE oltre a definire la multifunzionalità ha cercato di normarla. L’importanza della multifunzionalità era chiara già dal 1992, quando con la riforma McSharry la Commissione Europea riconosceva le funzioni esercitate dagli agricoltori, in termini di preservazione ambientale, e la necessità di incentivare forme di agricoltura meno intensive. Tuttavia, nel 2003 la Politica Agricola Comune (PAC) europea aveva come obiettivo principale (primo pilastro) l’adozione di un’agricoltura che non danneggiasse l’ambiente, mentre al secondo pilastro5 erano demandate le funzioni paesaggistiche, di tutela della biodiversità e sociali. Questo è dovuto da un lato alla profonda eterogeneità dell’agricoltura in ambito europeo e dall’altro alle negoziazioni che sono avvenute tra i diversi stati membri. Gli interessi che hanno prevalso sono stati quelli di Gran Bretagna e Germania le quali, con un territorio perlopiù pianeggiante, erano interessate solo alla competitività economica del settore, da raggiungere attraverso l’agricoltura intensiva. Mentre altri paesi come Francia, Italia e Spagna, con un territorio in proporzione maggiormente montuoso e collinare rispetto ai due paesi precedenti, avevano invece interesse a tutelare funzioni come quelle paesaggistiche, idrogeologiche e sociali. Di conseguenza, dal 2003 la sostenibilità è stata perseguita meramente attraverso monitoraggi per verificare il rispetto delle normative ambientali e, in misura profondamente inferiore, incentivando la produzione di esternalità positive attraverso la multifunzionalità.
Più incisivo nel disciplinare la multifunzionalità è stato il Regolamento sullo sviluppo rurale (Reg. CE n. 1698/2005). Esso prevede: (1) incentivi per il miglioramento delle prestazioni ambientali dell’agricoltura e della silvicoltura; (2) di favorire la competizione basata su misure per il riconoscimento dei territori originari di produzione (3) pagamenti agli operatori che effettuano interventi per la tutela dell’acqua, del suolo e del paesaggio, lo sfruttamento di energie rinnovabili e di materie prime per la filiera bioenergetica, l’adozione di pratiche agricole e silvicole atte a contrastare il cambiamento climatico, l’agricoltura biologica e la gestione dei siti Natura 2000; (4) di promuovere le attività ricreative, ed in particolare l’agriturismo, come mezzi per l’incremento dell’occupazione nei territori rurali. Questa normativa comprende molti aspetti che potenzialmente possono incrementare la produzione di esternalità positive nell’ambito rurale, ma secondo alcuni detrattori rimane troppo vaga per quanto riguarda gli strumenti pratici di implementazione (Casini, 2009).