Come per il concetto di sostenibilità, è necessario definire il territorio attraverso un metodo interdisciplinare che tenga conto degli aspetti economici, ambientali e sociali.
Di conseguenza, è del tutto insufficiente identificare una definizione di territorio che si basi meramente sui confini amministrativi e/o geografici: talvolta essi contengono diversi “spazi culturali” con tradizioni, bisogni e aspirazioni diverse tra loro; inoltre possono contemplare diversi stock relazionali (il cosiddetto capitale sociale), naturali, ambientali e paesaggistici (Andreopoulou, 2012).
Dal punto di vista economico, la tesi della centralità di un territorio e delle sue risorse nel determinare lo sviluppo di una determinata area è stata dibattuta fin dagli albori della teoria economica. Infatti già per Adam Smith (1776), i diversi paesi si distinguono per l’efficienza con cui producono diversi beni grazie alla caratteristiche peculiari dei diversi territori, garantendo a un certo paese un vantaggio assoluto. Secondo lo studioso inglese, i fattori che rendono favorevole la produzione sono riconducibili a fattori naturali tipici di un territorio, come il clima favorevole, la fertilità dei terreni e l’esperienza della manodopera locale. Seppur parzialmente semplicistica, questa tesi non è mai stata messa in dubbio, al contrario, è stata rafforzata da altri studi successivi riguardanti il commercio internazionale.
Sebbene non sia obbiettivo di questo lavoro di tesi fare una rassegna delle varie teorie del commercio internazionale, è utile ricordare che economisti neoclassici come Ricardo (1817) con la teoria del vantaggio comparato ed Ohlin (1933) con il modello della proporzione dei fattori produttivi, economisti neokeynesiani come Krugman (1987) con la Nuova Teoria del commercio internazionale, pur partendo da prospettive differenti, vedono nel territorio un fattore determinante nello sviluppo di un paese.
Maggiore attenzione merita senza dubbio il modello del diamante di Porter (1990): esso spiega il maggior sviluppo di un paese non solo attraverso i cosiddetti “fattori di base” (come le risorse naturali) di un territorio, ma anche attraverso la natura della domanda interna, ovvero dei consumatori. Infatti, la presenza in un determinato contesto territoriale di una domanda esigente induce le imprese ad essere più efficaci nel soddisfare i bisogni dei clienti anche di altri paesi. E’ evidente come i fattori culturali di un determinato territorio giochino un ruolo fondamentale nel determinare le caratteristiche della domanda di un paese.
Inoltre, per Porter un altro fattore esplicativo dello sviluppo è la presenza in un paese di una rete (cluster) di imprese collegate e di supporto efficienti. Il forte capitale sociale, inteso come intensità di relazioni tra i vari soggetti di un territorio, permette la diffusione di capacità e competenze. Ghiringhelli e Pero (2010) hanno individuato in Italia diversi esempi virtuosi di distretti, tra cui il distretto Biomedicale nei territori a cavallo delle province di Mantova e Modena e il distretto veneto delle nanotecnologie.
Negli anni Novanta, inoltre, si assiste al passaggio da una visione del territorio meramente di tipo amministrativo e giurisdizionale, ad una visione maggiormente interdisciplinare, grazie in particolare all’economia ambientale. In questi anni si intuisce che nel territorio si incontrano diversi interessi, non solo economici ma anche ambientali, sociali, culturali ed istituzionali, grazie ai quali viene creato un patrimonio distintivo. Inoltre, la spinta competitiva della globalizzazione induce gli imprenditori a sfruttare le peculiarità territoriali a loro favore per ottenere un migliore posizionamento competitivo, che consenta di aumentare la qualità e la differenziazione dei prodotti. Di conseguenza, si è creato un circolo autorinforzante attraverso il quale gli operatori locali da un lato godono di benefici grazie al territorio ed allo stesso tempo sono incentivati ad aumentare il patrimonio territoriale per averne benefici in futuro (Andreopoulou, 2012).